Sono soprattutto cinesi, coreane, giapponesi. Qualcuna thailandese.
Vestite in abiti tradizionali thai, perfettamente truccate e acconciate, nonostante il caldo senza pietà di inizio maggio. A gruppi di due, tre o in famiglia, la maggior parte armate di smartphone con triplo obiettivo, alcune con fotografo professionista al seguito. Si mettono in posa, ammiccano o guardano misteriose verso un’altra direzione con aria contemplativa. L’abito svolazza nell’aria pesante di un temporale in arrivo. Sullo sfondo, il Wat Arun, il complesso di templi più sontuoso di Bangkok.
All’arrivo in battello dal Chao Phraya inizialmente non le noto, ma dopo aver incrociato i primi due o tre gruppetti di persone che si dirigono verso il tempio inizio a pensare ad un gran colpo di fortuna: di ritrovarmi nel bel mezzo di un matrimonio thai.
Penso che siano qui proprio per questo le ragazze che incontro all’inizio della visita al Tempio dell’alba, nell’area antistante il prang principale, la torre istoriata alta ottantuno metri al centro della costruzione. Sono in tre, una più bella dell’altra, vestite in abito thai vicino al Ubosot, la Sala dell’Ordinazione. Hanno occhi da gatta e rossetti perfetti, ciglia curve all’insù, unghie laccate lunghissime, capelli lucidi freschi di piega. Il fotografo è accovacciato, con una mano regge la fotocamera, con l’altra tende il drappo dell’abito su cui è adagiata la mano della bella orientale. Le dà indicazioni in inglese: “Guarda un po’ più in basso, socchiudi gli occhi, alza un po’ il mento”. Click, click, click. Un po’ di scatti, poi tutti e quattro controllano le foto sul monitor. Se non soddisfano, si ricomincia da capo. Le due amiche, pochi passi più indietro, aspettano il loro turno.
I miei capelli corti invece sono scompigliati, non c’è più traccia di lacca né di phon. Il velo di trucco del mattino ormai quasi sparito. Sciolto. Guardo i miei vestiti, i pantaloni sgualciti e anonimi, la T-shirt chiazzata di sudore dopo la giornata sotto il sole ardente di Bangkok. L’astuzia di sceglierla di un colore chiaro non ha funzionato un granché. Mi fermo a osservarle, incuriosita. Nonostante il mio aspetto sciatto e poco profumato, dopo alcuni minuti prendo coraggio e mi avvicino al fotografo. Tento di attaccare bottone, chiedo se posso vedere la foto. Le ragazze mi guardano altere negli abiti luccicanti, perfettamente stirati. Do una sbirciatina, faccio i complimenti e proseguo.
Girato l’angolo dell’Ubosot, un altro gruppo, ben più numeroso. Quattro signore un po’ più avanti con gli anni, con almeno tre nipoti al seguito. Ci sono anche delle giovani coppie. Le ragazze si appoggiano al muro dell’edificio, qualcuna si siede per terra, le gambe lunghe piegate di lato. Lui si muove intorno per trovare l’inquadratura migliore. La giacca del costume thai ingessa un po’ i suoi movimenti, ma non ci fa caso. Scatta, guardano insieme il risultato sullo smartphone, poi cambiano posa. Degli sposi nessuna traccia, ma dagli abiti immagino che queste siano le damigelle d’onore. O magari sono qui per il servizio fotografico prima della cerimonia. Giro l’angolo a sinistra e mi dirigo verso il prang centrale.

Attorno alla guglia gli abiti tradizionali thai ora non si contano. Sono ovunque: sulle gradinate più alte, accanto alle statue, ai piedi del tempio, sul prato antistante. A gruppi di due, tre, cinque, le belle orientali si fotografano a turno o in coppia. Offrono il viso al vento, per far volare abiti e capelli nella direzione giusta. Eppure in alcune noto qualcosa che stona: le scarpe. La mia teoria del matrimonio scricchiola, ma non ho il coraggio di attaccare bottone di nuovo. Mi tengo il dubbio.
Sembra che per il temporale manchi poco ormai. Faccio il giro del tempio e nonostante il mio look trasandato a questo punto mi concedo qualche scatto con il Tempio dell’alba. Controllo pure io lo smartphone prima di andare via: non un granché, ma mi accontento.
Sotto le prime gocce di pioggia torno verso il molo per riprendere il battello e questa volta la noto, a sinistra. Una fila di giovani orientali davanti a una bancarella con camerino dall’aspetto improvvisato. Un’altra fuori dalla porta di un negozio. Sembra un atelier di abiti da cerimonia tradizionali. Sul cartello leggo: “Choos.Thai. Rent. Free accessories.”1 Duecento bhat per due ore, circa cinque euro e mezzo. Altri cento bhat per trucco e acconciatura, due euro e settanta.
Apro Instagram e cerco “Wat Arun”.
Ecco le #thaibeauty. Sono tutte lì.
Io sono Elisa Malisan e questo è un racconto che ho scritto qualche tempo dopo il mio primo viaggio in Thailandia. Sono autrice del blog di viaggi Elimeli, specializzata in viaggi indipendenti in sudest asiatico.
Di professione mi occupo di comunicazione e marketing. Viaggio e scrivo. Non sempre in quest’ordine.
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Durante il mese di dicembre ho preferito non mandare la newsletter, ero un po’ stufa di leggere recap di fine anno, elenchi di destinazioni visitate che lasciano il tempo che trovano, liste di “buoni propositi”, obiettivi e quant’altro. Ho preferito lasciar stare per non rischiare di incappare nello stesso trend. In compenso, ho scritto parecchio per il blog, montato qualche video dell’Indonesia e di un paio di escursioni in montagna (ne ho fatte diverse bellissime in Friuli Venezia Giulia, dove abito), iniziato l’anno con un altro breve viaggio in Belgio. Qualche link per leggere, guardare e chissà, magari iniziare a pensare alla prossima destinazione.
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Infine, qui un po’ di codici sconto utili per viaggiare, in particolare a medio-lungo raggio. Just in (suit)case.
A presto 💛
Elisa
Choos.Thai. Abiti a noleggio. Accessori gratis.